Attese e visioni di pubblicazioni future: Michele Ortore con “Buonanotte occhi di Elsa”
Probabilmente ci sono le radici dormienti del poeta dietro les yeux d’Elsa di Louis Arangon in citazione che causarono “la cicatrice immatura” col suo nome legato d’un tratto alla perdita sofferta. Ma da quella sofferenza, il poeta, riconosce, a nostro avviso, l’acquisizione dell’arte del bulino con cui ora “sollevare sotto la forza del palmo della mano a uno ad uno i cirri di rame,- e ora sa come- entrare nei cieli di nuvoli al di sopra dei paesi delle incisioni, che dicono melanconia, indifferenza e oltremondo” (F. Fortini). La torta e insidiosa strada della poesia che pure è tutta in luce ha sempre e comunque oboli di dolore da chiedere. Chi mai comprenderà sino in fono tutto il privilegio che ne viene? Perché il dolore sotto questo cielo comunque sarà per ognuno, ma diversamente la cifra poetica l’occasione.
Ortore ha raggiunto questa consapevolezza e la “porterà fino alla fine del mondo” anche perché ha compreso l’onniscienza custodita come rosso d’uovo nel guscio, che vissuta l’intera vita, in quel dolore già era, “tutto quello che insieme sapevamo” (M.G.Calandrone). Certo è che questa raccolta,”Buonanotte occhi di Elsa” , dedicata alla giovane compagna del sentiero d’amore e di vita – Roberta – è una consegna, un passaggio di testimone, come le radici consegnano alle foglie il verde con cui ondeggiare al vento, con cui amoreggiare alla luna, come il sussurrare dell’afa verde al sole giallo.
Così non ci stupisce che all’alba si debba tornare ad apprendere nuovamente il gioco d’amore mentre una sola certezza resta: l’amata serena e “fondamentale” come il blu nella tavolozza dei colori del pittore. E questa certezza basta per un “per sempre”, precario come un bottone nell’asola, come un alamaro allacciato alle volontà dell’amata. In fondo il “ponte sbilenco” del piede della donna “costruisce fra generazioni di amori diversi” non è poi più forte e solido e certo di ponti rigidi e dritti di precarie architetture? In fondo non sono gli amori ad averci fatto superare le colline delle ère, le erte dei secoli e dei tempi con le loro pestilenze? Quanta forza in questa poesia e quanta capacità di entrare nell’energia molecolare della parola, come segno e come sintesi perimetrale del sentimento! Una lettura critica non dovrebbe presentare esclamativi in ossequio alla scientificità che questo tipo di lettura ricerca, ma è impossibile frenare l’entusiasmo di fronte alla certezza di avere davanti i versi di un poeta. È nato qui?
Da “Amigdala” è cresciuto, solo cresciuto e “verticalmente” senza assumere diffuse crescite striscianti, raso terra, come capita di leggere. E non ci sembra cosa da poco. Qui ci si riconosce in tutta la densa precarietà , liquida e stagionale però, quindi con possibili metamorfosi e ritorni! Sono versi che vengono dal profondo, “dall’abisso”. Alcuni lettori temono le profondità: delle acque, delle crepe di montagna, del cuore e dell’intelletto degli uomini.
Torna al poeta sempre e spesso il capo del filo fra le mani: cosa resterà di noi? A ogni risoluzione trovata, ad ogni sicurezza sperimentata per l’incerta consistenza delle parole, segue l’ostinazione del “rincominciamento”: l’inizio del mondo a tratti è la vita che il poeta beve dai mondi scoscesi dell’amata che ella stessa non conosce, ma che è fonte inesauribile di conoscenza per lui che si conosce (ri-conosce) attraverso lei, curve di carne e d’anima, “nei tuoi occhi senza cornice” cioè essenza pura, contenuti disadorni capaci di suggerire ogni purezza ed essenzialità della vita.
Un’ancora d’amore seppure fatta di soli capelli annodati alla conchiglia, ma capace di distinguere l’aria dal vento e trovare senso
all’essere anche attraverso ciò che non è più (la consegna, dicevamo, delle radici, alle foglie). Si resta anche nella polvere, un continente, un’esistenza sta in un pugno di polvere. È poco? Ma non è l’Inizio di Adamo e del creato? E le sue mani a capanna sul capo, le sole nude mani non furono la prima casa? Se le certezze sono precarie come paraventi, come le rudi e povere saggezze dei proverbi popolari, ebbene la loro tenacia custodita dalla forza della fragilità può restare oltre la solidità, come la bellezza del corallo “oltre lo scoglio”. Ortore nomina il mondo con la saggezza di un anziano (di quando gli anziani erano saggi) e con la freschezza di una giovinezza originale e pensosa fattasi ricca di conoscenza e di personalità. Ortore spezza solitudini, accorcia le distanze tra la poesia e la vita, rendendo poetica la seconda e premiando con la vita la lettera morta in cui ormai spesso la seconda giace da tempo.
Michele Ortore è nato a San Benedetto del Tronto nel 1987. Si è laureato in “Studi italiani ed europei” alla Sapienza, con una tesi sulla lingua della divulgazione astronomica (in pubblicazione ad ottobre 2013 per Fabrizio Serra Editore). Le sue poesie sono apparse nelle antologie di premi nazionali, fra cui i più recenti sono Poesia di strada 2010 e Il lago verde 2011, e su diverse riviste e lit-blog (Argo, Pi greco, La poesia e lo spirito, Poetarum silva, Neobar; sul quotidiano La Stampa a cura di Maurizio Cucchi). Con la plaquette Corde nel vuoto è stato finalista del concorso Opera Prima di Poesia 2.0. La raccolta Buonanotte occhi di Elsa è in corso di pubblicazione per Vydia Editore (dicembre 2013). È giornalista pubblicista e ha scritto di teatro e poesia per Atelier, Krapp’s last post, UT, Poesia 2.0 e i Quaderni del Teatro di Roma.
(Lorella Rotondi)